ATTI DEL CONVEGNO

Le antiche riparazioni in piombo sui dolia provenienti dal relitto della nave
romana del golfo di diano marina.

CENTRO LIGURE PER LA STORIA DELLA CERAMICA

XXIX CONVEGNO INTERNAZIONALE DELLA CERAMICA *

ALBISOLA SUP. - MAGGIO 96 - ATTI

Giuseppe Rando

Dal suo ritrovamento nel 1975 il relitto della nave romana del golfo di Diano Marina1 - allora tra i primi scoperti del genere - fu considerato di straordinaria importanza per le caratteristiche del carico, costituito principalmente da quattordici grandi contenitori in terracotta, chiamati dolia2, collocati nella parte centrale dello scafo, da quattro dolioli e da numerose anfore stivate nei gavoni di poppa e di prua.
Altri relitti con lo stesso tipo di carico e ritrovamenti sporadici di grandi fittili, che sono stati individuati e scavati nel corso degli anni ’80 lungo le coste tirreniche e provenzali, hanno fornito una notevole quantità di dati utili a delineare un quadro sempre più preciso delle rotte commerciali percorse da queste navi "porta containers"3.
Per quanto riguarda il relitto di Diano Marina, una parte delle dotazioni di bordo e alcuni grandi dolia ricuperati, insieme a manufatti provenienti dalla nave oneraria di Albenga, furono presentati per la prima volta in una mostra allestita a Genova dalla Soprintendenza Archeologica della Liguria nell’ottobre del 1983.4 In quella occasione ebbe inizio l’opera di restauro dei reperti che seguì con una certa regolarità le successive campagne di scavo, le quali si svolsero nell’arco di più di un decennio e si conclusero nel 1990 con il ricupero di tutto il materiale sommerso. Le parti dello scafo ancora conservate vennero lasciate sul fondo, ricoperte di sabbia: lo scavo dei restanti reperti lignei è stato rinviato per le notevoli difficoltà che a tutt’oggi implicano il restauro e la conservazione dei legni inzuppati d’acqua5.
Il buono stato di ritrovamento dei materiali di questo relitto, datato intorno alla metà del I sec. d.C., è dovuto all’ambiente subacqueo dove, normalmente, alla profondità di 40 m, le escursioni termiche sono minime e le condizioni di giacitura rimangono piuttosto costanti nel tempo.
La maggior parte dei dolia sono stati ritrovati integri e tutti contrassegnati da numerosi interventi riparatori fatti in antico con grappe a coda di rondine e fusioni di piombo. Soltanto due di essi erano frammentari ed un terzo, già lesionato, durante le fasi di alaggio subì il distacco di alcuni settori di parete per il cedimento delle grappe metalliche.
Con il restauro, l’osservazione in dettaglio del materiale frammentario portato in superficie, ha permesso di raccogliere numerose informazioni su questi manufatti ed una particolare attenzione è stata rivolta ai dati inerenti alla tecnica costruttiva e alle riparazioni riscontrate. Oltre al colore e alla composizione dell’impasto, è stato possibile constatare in frattura, che i dolia potevano non essere stati costruiti a colombino (metodo usato per modellare contenitori anche di grandi dimensioni sovrapponendo cordoli di argilla): non essendovi traccia leggibile dell’uso di questa tecnica, si può ritenere che essi siano stati foggiati utilizzando porzioni di terra accostate e pressate tra loro. Si è accertato che l’imboccatura è stata modellata a parte e successivamente applicata con barbottina sulle pareti ancora a durezza cuoio, come si è evidenziato- dove la giunzione era difettosa - dalle caratteristiche modalità di distacco netto di alcuni frammenti di orlo dalla parete e dall’esame della superficie di contatto (Fig. 1). Inoltre è stato possibile osservare la presenza di numerose fessurazioni riparate, interne ed esterne, che non attraversano lo spessore delle pareti.
In particolare, in prossimità dell’imboccatura, le cause delle fratture che si sono formate nel punto di attacco tra l’orlo e le pareti, possono essere ricondotte al fatto che, nei casi considerati, le masse delle parti congiunte tra loro hanno volume diverso e per questo, nella fase di foggiatura, l’argilla asciugandosi si è ritirata durante l’essiccazione seguendo linee divergenti (Fig. 2).
Su tutti i dolia provenienti dalla nave di Diano Marina, tranne un doliolo, la costante presenza di riparazioni ha dato luogo ad una serie di interrogativi sulle modalità riguardanti la loro esecuzione e sulle cause che le hanno rese necessarie. Le riparazioni sono state ottenute con piombo fuso colato in apposite sedi, scavate seguendo le linee di frattura, situate ad una profondità variabile tra uno e due cm nelle pareti che, a loro volta, hanno mediamente uno spessore di quattro / sei cm.
Queste fusioni, eseguite con procedimenti propri della metallurgia (perciò probabilmente realizzate da tecnici specializzati che affiancavano l’opera del ceramista), sono costituite da una parte di piombo colata nelle screpolature allo scopo di sigillarle - tenuta stagna - e da una parte formata a coda di rondine, con la funzione di rinforzare la struttura - tenuta meccanica - (Fig. 3).
Il metallo veniva poi rincalcato a freddo, allo scopo di farlo aderire meglio alla terracotta, incrementando anche la tenuta meccanica (Fig. 4). L’impeciatura delle pareti interne6, quale operazione conclusiva, garantiva la tenuta stagna del contenitore e la separazione del piombo da ciò che il dolio avrebbe dovuto contenere, evitando possibili effetti dannosi ai fini della conservazione degli alimenti.
Dal dolio Inv. S.B. 20537, rotto durante il ricupero, si sono staccate porzioni di saldatura che hanno messo a nudo un complesso reticolo di metallo, evidenziando quanto fossero articolate alcune riparazioni eseguite su parti molto lesionate (Fig. 5). Questo, con altri dati comuni a tutti i dolia del carico, ha indotto a ripercorrere le fasi costruttive dei manufatti per cercare di stabilire come e in quale momento del processo di formazione potessero essere state predisposte le sedi necessarie ad accogliere le piombature. Dalla ricerca8 si apprende che già i pithoi greci venivano riparati in questo modo, ma si è anche dovuto constatare che l’argomento, pur ricorrendo frequentemente, non viene trattato dal punto di vista del sistema adottato per l’esecuzione delle riparazioni: la loro presenza viene puntualmente documentata e attribuita a rotture causate da eventi che potevano verificarsi durante l’uso del manufatto. Ciò vale anche per quanto riguarda relazioni di scavo9ed articoli più recenti10.
Tuttavia non si comprende come si potesse intervenire sul dolio lesionato per ripararlo e "scolpire" in cavo i solchi necessari ad incanalare il getto di piombo fuso, agendo sulle pareti del manufatto indurito dopo la cottura: è un’operazione che lascia alquanto perplessi dal punto di vista della sua attuabilità.
Da un esame più approfondito è stato possibile desumere che, per le "proverbiali" difficoltà costruttive di questi contenitori11 - alcuni della capacità di 3000 litri - già durante la foggiatura avrebbero potuto verificarsi fratture e distacchi nell’argilla conseguenti alle tensioni provocate da un processo di essiccazione avvenuto in modo insufficientemente omogeneo e progressivo.
Quanto sopra suggerisce l’ipotesi che per il tipo di screpolature e per le cause che possono averle generate, le sedi che alloggiano le fusioni avrebbero potuto essere scavate nella creta prima della cottura, in fase di essiccazione.
In questo caso la sequenza del procedimento costruttivo, in sintesi, sarebbe stata la seguente:
1) foggiatura delle pareti del dolio e fase iniziale dell’essiccazione;
2) ad essiccazione avanzata, applicazione dell’orlo modellato a parte;
3) nel caso in cui si fossero formate fenditure, screpolature, cedimenti strutturali, intervento preventivo del ceramista che scava i solchi per le fusioni e le sedi per le grappe a coda di rondine lungo le fenditure;
4) completamento dell’essiccazione;
5) cottura;
6) attuazione delle riparazioni con fusioni in piombo colato nelle sedi predisposte al punto 3;
7) impeciatura delle pareti interne.
Così procedendo, non solo l’intervento riparatorio sarebbe stato possibile ma, per la parte della giunzione formata a coda di rondine, i solchi, scavati in fase di essiccazione, avrebbero prodotto l’effetto positivo di ridurre le tensioni in atto, ostacolando la tendenza delle fratture a diffondersi. Il ceramista, incidendo nell’argilla ancora relativamente fresca del dolio in costruzione i canali nei quali si sarebbe poi colato il piombo fuso, predisponeva gli accorgimenti tecnici necessari a rimediare ai difetti sopraggiunti nel delicato passaggio precedente la cottura.
Poi, sul dolio cotto e "non ancora del tutto raffreddato"12, sarebbe stato possibile fare più agevolmente le saldature e finalmente l'impeciatura delle pareti interne.
Quanto detto fa ritenere che il complesso intervento riparatorio costituisse parte progettuale di un metodo che veniva messo in atto quale presupposto necessario nella costruzione dei dolia.
Il sistema terracotta-piombo permetteva il superamento di fasi critiche dovute soprattutto (ma non soltanto), al limite determinato dalle dimensioni monumentali di questi manufatti13. Se durante la foggiatura o l’essiccazione il dolio si fessurava, non essendo possibile riparare in modo adeguato il danno nel momento in cui questo si verificava, si predisponevano le necessarie correzioni e si rinviava a dopo la cottura la riparazione definitiva14. Infatti, il piombo che ha un punto di fusione vicino ai 350° C, non può essere utilizzato prima della cottura dell’argilla, che cuoce appunto intorno ai 980° C.
Una conferma a sostegno di questa tesi è data dal già citato dolio Inv. S.B.2053 (Fig. 6). Come si è detto, durante il restauro è stata osservata, all’interno del contenitore, la presenza di riparazioni, fatte in antico, caratterizzate da grappe a coda di rondine. Dopo il restauro - che ha restituito la forma integra - si sono evidenziate sulle pareti esterne fratture ricomposte, anche queste in antico, con fusioni di piombo prive di grappe a coda di rondine (Fig. 7). Da ciò si è dedotto, per le considerazioni fatte, che questo reperto è stato danneggiato più volte, sia al momento della sua costruzione sia durante l’uso: le differenze tra le riparazioni predisposte prima della cottura ed eseguite dopo con piombo fuso, e le riparazioni fatte a seguito di fratture accidentali avvenute dopo la cottura, determinano cronologicamente i momenti in cui si è verificato il danno. Ma, nel caso in cui la riparazione venisse fatta dopo la cottura, non potendo scavare nella terracotta le apposite sedi per le grappe a coda di rondine, rimane da chiarire come si potesse garantire la tenuta meccanica delle pareti: probabilmente ricorrendo a legature con corde o sostegni esterni al dolio. Ad incremento delle argomentazioni portate, un esempio è dato da due lastre architettoniche di coronamento traforate in terracotta frammentarie, provenienti dal Capitolium di Luni15, che forniscono uno specifico caso in cui le fusioni in piombo sono state eseguite dopo la cottura a seguito della rottura accidentale delle lastre. Anche questi reperti furono riparati in antico con barrette e perni ottenuti con un unico getto di piombo fuso: i perni alloggiano in fori praticati nello spessore delle lastre fittili, mentre le barrette in superficie, solidali ai perni, uniscono le parti frammentarie (Fig. 8). A ben guardare, queste terrecotte si sarebbero potute riparare con lo stesso risultato utilizzando fusioni con grappe a coda di rondine ma, dovendo agire su materiale cotto, si preferì non scavare le sedi necessarie ad accogliere il getto di metallo fuso. Le riparazioni presenti sui frammenti provenienti da Luni, confrontate con quelle dei dolia di Diano Marina, pur essendo notevolmente diverse tra loro, hanno elementi in comune quali le modalità di realizzazione delle saldature effettuate con criteri e accorgimenti tecnici analoghi. Il confronto concorre a sottolineare la differenza dovuta alla presenza o assenza di grappe a coda di rondine, che rende visivamente riconoscibili le riparazioni predisposte prima ed eseguite dopo la cottura, da quelle riparazioni conseguenti a danni dovuti ad incidenti sopraggiunti durante l’uso del dolio.
Un esempio di miglioramento del metodo di foggiatura dei dolia è fornito dalla relazione di scavo di S. De Caro16 dove, oltre ad essere segnalata la presenza di dolia riparati, sono descritti due tipi di contenitori: un tipo con orlo rettilineo e un tipo con orlo a becco di civetta. Queste differenze tipologiche possono sottintendere sostanziali differenze costruttive. Confrontati con quelli di Diano Marina, questi dolia hanno dimensioni più piccole, impasti diversi e profilo dell’orlo con uno spessore molto simile a quello delle pareti. Soprattutto nel tipo con orlo estroflesso a becco di civetta, dove l’orlo è foggiato in continuità con le pareti e non applicato, si evidenzia che vi è stato un passaggio tecnologico in cui il ceramista ha adottato questo accorgimento per evitare i rischi di distacchi e fessurazioni nelle fasi precedenti alla cottura.
Una ricerca sistematica auspicabile, vista la scarsezza di dati statistici, tipologici e cronologici, potrebbe fornire molti elementi per la classificazione di questi manufatti e utili strumenti di indagine sui diversi metodi adottati per la costruzione di questi grandi contenitori.

GENOVA, 26 maggio 1996

G. Rando C/O Soprintendenza Archeologica della Liguria

(*) XXIX Convegno Internazionale della Ceramica, Edizioni ALL’INSEGNA DEL GIGLIO Firenze, 1996, pp.235-242

1 F. PALLARÉS, La nave romana del golfo di Diano Marina, Relazione preliminare della campagna 1981, in “Forma Maris Antiqui”, XI - XII, 1975 - 1981, pp. 79-107.
2 Per i dolia in generale vedi : Ch. DAREMBERG - Edm. SAGLIO, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, s.v. dolium, vol. II.1, Graz 1969, rist. , pp. 332 - 333, Figg . 2492-2493.
3 P.DELL’AMICO , Le antiche cisterne del mare, in “Archeosub”, suppl. n..79, 1991, pp. 68- 72; V. D’ATRI, Il relitto di Ladispoli, in “Archeologia Viva”, n. 4, 1986, pp.39-47; A. TCHERNIA, Le vin de l’Italie romaine, École Française de Rome, 1986, pp.138 - 139.
4 Mostra di Archeologia Sottomarina, “Navigia Fundo Emergunt”, Quaderni della Soprintendenza Archeologica della Liguria, I, Albenga 1983.
5 C. MEUCCI, Problemi di ricupero e restauro del legno bagnato, in “Archeologia Viva”, n.10, 1984; F. PALLARÉS, Alcune considerazioni sui resti lignei della nave romana del golfo di Diano Marina, in Atti della IV Rassegna di Archeologia Subacquea, Giardini Naxos, 13 - 15 ottobre 1989, Messina 1991, pp.171-177.
6 GEOPONICA, Libro VI, cap.3 (pp. 173-4 Beckh); CATO, De Agricult. , 39, XLVI. Ringrazio per la collaborazione la dott. Francesca Gazzano che ha curato le ricerche sulle fonti letterarie greche e latine.
7 G.RANDO, Relazione di restauro, in Archeologia in Liguria III .2, Genova 1987, p.511. Ringrazio il dott. G.P.Martino, responsabile di zona della Soprintendenza Archeologica della Liguria, per aver messo a disposizione i materiali oggetto di questo studio.
8 Repertorio in K.D.WHITE, Farm Equipement Of Roman World, Cambridge 1975, pp.144-147.
9 A.CARANDINI (a cura di), Settefinestre. Una villa schiavistica nell’Etruria romana, Modena 1985; Monumenti antichi, Reale Accademia dei Lincei, Milano 1897, volume VII, pp.484-488; S.DE CARO, La villa rustica in località Regina a Bosco Reale, Roma 1994, volume I, pp.63-69.
10DELL’AMICO, Le antiche cisterne, op. cit.; D’ATRI, Il relitto, op. cit.
11DAREMBERG-SAGLIO, op. cit., p.332, 4.
12 GEOPONICA, op. cit., 3.4.8.
13 F. PALLARÉS, La nave romana, op. cit., pp. 92-97.
14 Empiricamente, limitate prove di applicazione di questo metodo su argilla modellata e cotta hanno dato esiti soddisfacenti e chiarito alcuni aspetti tecnici nella realizzazione delle fusioni; cfr. RANDO, Frammenti, catalogo della mostra, Genova, Cisterne di S. Maria di Castello, 1993.
15 Luni magazzini, Inv. n. 88228 e n. 88232, dal Capitolium. Ringrazio la dott. A. Durante, responsabile dell’area archeologica di Luni, per i dati inerenti le lastre architettoniche.
16S. DE CARO, La villa rustica, op. cit., vol. I, pp.67-68.